mercoledì 13 agosto 2008

TELEVISIONE E LINGUA ITALIANA: UN RAPPORTO DI PERFETTA E CONTINUA ANTITESI

Alzi la mano chi non ha mai sorriso dinanzi ad un se potrei detto da un opinionista in uno di quei talk del dopo pranzo o per un accento particolarmente accendo cadenzato tipico di una determinata regione italiana. I congiuntivi, i condizionali, le parole lette e dette con accenti sbagliati: mostri della lingua italiana con cui bisogna combattere soprattutto se si ha a che fare, quotidianamente, con tante persone. È quantomeno doveroso che, laddove è necessario, l'italiano, la nostra amata e complessa lingua, debba essere rispettato nelle sue regole, nelle sue forme e nelle sue varie accezioni. La televisione, sotto questo punto di vista, dovrebbe - non a caso è usato il condizionale - essere portatrice delle buone nuove da seguire, dato il suo compito di intrattenitore quotidiano che milioni e milioni di italiani scelgono, ogni giorno, per passare quel paio di ore di relax.

Invece, è proprio da essa, immaginata come un grande serbatoio, da cui sono attinti, poi, quegli errori che costano strafalcioni assurdi nella nostra consuetudine e nella nostra vita sociale quotidiana. Non a caso, quando, per esempio, si è in dubbio su quelle che possono essere le differenze che intercorrono nell'uso di un determinato neologismo o di una data forma verbale, ascoltando implicitamente ciò che è propinato dal tubo catodico, molto spesso erroneamente, quello stesso dubbio viene a mancare: passivamente si è accettato ciò che è passato e molto spesso è errore. A tal proposito, dell'utilizzo che viene fatto della lingua oggigiorno da parte della televisione, è stato un pubblicato su Libero un interessantissimo reportage che vogliamo proporvi.
Troppo dialetto, accenti errati e strafalcioni: la tv è fuori controllo

Non è la prima volta che la televisione viene messa sotto accusa. Spesso, ad esempio, è stato denunciato il linguaggio sbracato, approssimativo, vernacolare a cui sono esposti i ragazzi di tutte le età in certe trasmissioni di intrattenimento. Ma negli ultimi anni si è avuta la sensazione che si fosse rotto ogni argine. La tivù generalista è rapidamente scivolata verso la tivù spazzatura e si è assistito al proliferare di comportamenti volgari, gratuiti e non di rado osceni, spacciati per spontanei e popolari.

La percezione del degrado non è ristretta a pochi, come si ostinano a credere gli addetti ai programmi, ma interessa fasce sempre più larghe della popolazione, di cui non è lecito sottovalutare l'intelligenza, né il disagio. Oggi molti telespettatori si dichiarano stufi di "questa" televisione. Alla noia si aggiunge un senso di frustrazione, dovuto all'autoreferenzialità di un mezzo come quello televisivo, che condanna tutti alla passività (la cosiddetta "audience") e sfugge ad un controllo diretto da parte del pubblico (se un comico non ti va, non puoi fischiarlo).

In questo clima di generale involgarimento della tivù pubblica e privata
trionfano, ovviamente, i vernacoli: il romanesco, il vernacolo toscano, il siciliano dei film di mafia, quasi sempre caricatura dei veri dialetti. Naturalmente il linguaggio pittoresco non è in sé negativo. Ma se oltrepassa certi limiti, scade a gergo di quartiere, e ciò certamente non contribuisce alla formazione, e al mantenimento, di una lingua comune.

Un'emittente pubblica non può mettere tra parentesi la lingua nazionale, come se non la riguardasse minimamente e fosse buona solo per i calendari e le curiosità etimologiche. Portando ad esempio una donna di servizio che diceva «
uomini sessuali» invece che «omosesssuali», Tristano Bolelli osservava: «Se quella donna non influenza il pubblico, al contrario il giornalista o l'annunciatore radiofonico o televisivo ha davanti a sé un numero sterminato di persone di cui costituisce un modello, ahimé riconosciuto, con le conseguenze che possiamo immaginare».

Per queste ragioni, a tutti note, è stato spesso invocato un codice deontologico. Ci si è richiamati al decalogo dell'italiano radiotelevisivo dettato nel '60 da Carlo Emilio Gadda, e qualcuno ha persino ricordato le multe comminate agli annunciatori della vecchia Rai, quando commettevano qualche errore. Una cosa è certa: il linguaggio di un'emittente pubblica non può vivere in una specie di limbo autosufficiente, sottratto ad ogni controllo sociale e culturale. Flaiano scrisse ironicamente che l'italiano era la lingua dei doppiatori e, specie per quanto riguarda il cinema di quegli anni, non sbagliava. Ma prima del '70 si poteva anche dire che l'italiano era la lingua degli annunciatori, senza con ciò fare dell'ironia, visto che in Gran Bretagna i telegiornali sono stati uno dei mezzi di diffusione dello standard nazionale, il cosiddetto Bbc English. Ben presto però la tivù pubblica cessò di essere un modello di lingua ed anzi diede un contributo decisivo alla confusione idiomatica. Oggi siamo alla comica involontaria delle "papere" non più occasionali, ma continuate: si confonde Obama con Osama (!), "crociata" diventa "crociera", si dice "pèndice" invece di "pendìce", ecc.

I telegiornali hanno messo da parte ogni correttezza ed ogni sobrietà
fino ad assumere negli ultimi anni lo stile delle televendite: notizie tambureggiate e drammatizzate oltre il dovuto (anche una nevicata diventa un evento), toni ansiosi e frettolosi, commentini insipidi e sfasati. Non parliamo naturalmente della mimica facciale, da film muto. I mezzibusti televisivi d'ambo i sessi sono diventati i campioni di una dizione asfittica ed esagitata, che toglie ogni naturalezza al parlato.

La pronuncia dell'italiano viene continuamente distorta dall'abitudine a spezzettare la frase, a compitare le parole separando l'aggettivo, o addirittura l'articolo, dal nome, come se i telespettatori fossero bambini delle elementari o stranieri, a cui bisogna parlare facendo pause innaturali fra una parola e l'altra. Una lingua "piana" come la nostra viene violentata nella sua più intima natura: invece di dire «una grande vittoria» con la sua giusta intonazione, in base alla quale i tre termini vengono pronunciati come una sola parola, si dice «unagrànde/vittòria», e «i cumuli di rifiuti» diventano i «cumuli di/rifiuti».

Già nel 1987 un acuto giornalista, Sandro Tasti, osservava: «Parole ordinate a casaccio, pause fuori posto, legamenti arbitrari, accenti impazziti, strazio delle parole straniere e di quelle italiane - non si segue né la pronuncia originaria né un criterio costante di italianizzazione - dilaganti inflessioni dialettali e tante altre "novità" che feriscono la lingua e disturbano l'ascoltatore sono fiorite con l'avvento dei giornalisti cosiddetti conduttori. Essi hanno inaugurato e segnano l'era della finta lettura e dei finto parlato».

Un ineffabile scampolo delle "novità" introdotte con il nuovo corso fu dato dal dantista svizzero Remo Fasani: «Consacrazione episcopale: la vocazione del cronista era un modello di (neo) retorica: parole staccate, anzi sillabate, anzi accentate sillaba per sillaba. E non basta. Usava anche suoni nuovi, inauditi in italiano: "hanno" pronunciato veramente con l'h, come potrebbe fare un tedesco o un inglese ignorante della nostra fonetica; l'a, simile all'a francese di "pàté" e più vicina ancora all'ò; c come k, t e p esplosivi. Un vocabolo come «parte» per esempio, diventava quasi "phòrte", anzi "party". Ma l'esempio forse più indicativo è stato un "cardinoli" vero e proprio. Lapsus? No, perché la deformazione (chi parlava non era uno straniero) veniva ad aggiungersi a tutte le altre, non casuali ma costanti».

Alla destrutturazione della pronuncia si accompagna quella della sintassi: intoppi, giri viziosi e avvitamenti del discorso sono quasi la normalità nelle esibizioni di certi conduttori. È una china in fondo alla quale troviamo le rassegne stampa diventate una corsa ad ostacoli in cui si inciampa continuamente nelle parole, e la voce "sporca" di chi legge fa il resto.

Così oggi grazie alla tivù è nato un italiano sgangherato e fuori controllo.

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