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Il 2008 sta volgendo
inesorabilmente a termine. Gli ultimi giorni sul calendario sono pronti ad essere macchiati di rosso, le ultime ore scorrono come le prime, anche se apparentemente più veloci che mai, le solite e consuete
buone speranze per un nuovo anno che inizia sono lì, pronte ad essere lasciate al vento che le accudirà così come tutte le altre di un’intera umanità. Manca poco quindi ad una nuova, grande unione in famiglia, per condividere emozioni, gioie, illusioni, magie e, perché no?,
risate. In una società così frenetica, così smaniosa di raggiungere traguardi sempre più complessi ed altisonanti, le occasioni per stare
tutti insieme sono ridotte davvero all’osso. E quelle poche che il fato ci riserva, bisogna certamente spenderle nel
migliore dei modi. Una cosa a cui molto probabilmente verrà data vita è quella relativa al
momento del ricordo: siamo pur sempre all’ultimo giorno dell’anno, vero? Risate, ricordi, e accanto a tutto ciò il piatto, o voluminoso, e l’eccezionalmente silenzioso, o sistematicamente frastornante,
televisore. Perché, in fondo, anche lui compie un altro anno, sia che vogliamo intenderlo come un aggeggio domestico vero e proprio, e quindi un qualcosa che ogni giorno che passa attira sempre più polvere e diventa sempre più
anzianotto, sia nella sua funzione, l’
intrattenere chi si posiziona davanti. Non a caso abbiamo parlato di risate, non a caso abbiamo parlato di ricordi, e non a caso abbiamo parlato di televisione. Cogliamo l’opportunità di questa strana (ma
fortemente voluta!) circostanza per fare un piccolo excursus nella televisione del 2008 per analizzarne i contenuti nelle sue varie sfaccettature, nelle sue infinitesimali facciate, la prima delle quali vuole essere quella della
comicità e delle sue trasmissioni.
Quello di quest’anno per la comicità è stato un
cammino impervio, un cammino caratterizzato da molti ostacoli, alcuni dei quali immobili e ciclici – i
luoghi comuni che vorrebbero una sua
crisi ogni volta che una sua costola è mandata in onda –, alcuni inconsiderati e imprevisti – possiamo pensare alle polemiche dopo una particolare pagina della comicità che più tende alla rappresentazione della nostra accecante quotidianità –.
Una cosa è certa, e si adatta a questa frangia presa in esamina così come a tutte le altre che saranno oggetto della nostra ispezione e del nostro fantomatico viaggio: il pubblico nella sua eterogeneità è
inevitabilmente cambiato e di pari passo anche chi fa la televisione, chi della comicità si elegge portatore. Divertire il pubblico è difficile, i gusti sono mutati. Ed è, questo, un qualcosa che noteremo guardando e rammentando
quattro trasmissioni in particolare, tra simil cabaret e comiche pure, che si sono annidate nei palinsesti della televisione generalista. Iniziamo il nostro excursus.
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La Rai ha dimostrato, anche in questo 2008, di essere realmente
poco avvezza alla comicità, istanza naturalmente del mondo più giovanile, conformemente perciò al suo radicato e conosciuto invecchiamento. La rete più
impensabile, sotto questo punto di vista, ha regalato una trasmissione sotto questo profilo. Parliamo di Raitre che dai primi giorni dell’anno ha subito snocciolato una
nuova edizione di
Tintoria, il programma ideato dalle menti di
Gregorio Paolini –
lo stesso che ha creato l’apprezzato Sugo su RaiQuattro – e di
Simonetta Martone che ha proposto, per quanto riguarda la conduzione, una coppia inedita e mal concepita: l’attore giapponese
Taiyo Yamanouchi con l’ex gatta nera
Ainett Stephens, poi approdata alla guida dell’immancabile edizione del
Circo Massimo Show. L’estemporaneità del programma, l’idea
mordi e fuggi del concept, attinta anche dall’evidente esiguità del budget della rete, ultima del trittico, quest’anno è
fugacemente sottratta ad una nuova dimensione nella quale vuole imperniarsi il mai brillante cabaret di Raitre, quella dello
show, pienamente scibile anche dalla stessa scenografia che strizza l’occhio al grande, al
multi, al bello e non più al contenuto essenziale. L’impronta evidente e principale di
Tintoria è la
diversità rispetto al solito, acquisita e metabolizzata da parte del pubblico con duplice natura. Da una parte è degno di nota il suo
voler decollare alto, unendo la costante della comicità con variabili mai “scomodate”, come i
forti temi sociali; dall’altra è lapalissiana l’incapacità nella resa effettiva della volontà, vista come tale anche dal
non possedimento di grandi nomi. Tra i pochi spiccano – ammesso e non concesso che questo che l’elevazione sia reale e non solo metaforica –
Sergio Friscia, al suo ennesimo tentativo di bucare definitivamente lo schermo senza però riuscirci,
Lisa Fusco, fresca reduce delle fatiche e dalla fame de
L’Isola dei Famosi, costretta ad esibirsi in luogo pubblico così come solitamente nelle meno conosciute emittenti locali, e il mediocre
Max Tortora, alla ricerca perenne della grande opportunità che mai bussa alla sua porta di casa. Una comicità più libera e slegata rispetto all’
idea del tormentone che, come vedremo dopo, è la costante di altre trasmissioni, unita alla
bella di turno che ha il merito di lussureggiare un po’ e niente più. Gli ascolti non sono esorbitanti, non si liberano dalla zavorra della seconda serata e languono nella palude della “quasi media di rete”. La
Tintoria come esempio tangibile di una
comicità a tratti sbiadita.
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Sarà che la comicità ha la capacità (e soprattutto
la facoltà) di reinventarsi e il suo fare e parlare
colto non è apprezzato, soprattutto per come il tutto è realizzato, ma questa trova la sua piena dimensione nella semplicità, nel suo essere conosciuto, nell’appuntamento che si segue sinceramente anche
per inerzia. Ed è sotto quest’ottica che Italia1, ancora una volta,
concede una possibilità al trio della
Gialappa’s che confeziona un nuovo numero del loro
Mai dire… declinandolo in modo tale che il risultato finale fosse
Mai dire Martedì. La serata scelta è quella delle più difficili, da quando esiste l’abitudine di farsi le
guerre a suon di controprogrammazione preventivata e schierata all’ultimo momento. In un certo modo ci si aggira attorno alla fossa profonda, ma un piede ci cade dentro lo stesso: l’orario di programmazione è fissato le
22 passate e la nuova confezione del trio composto da
Marco Santin,
Carlo Taranto e
Giorgio Gherarducci è anticipata da un doppio episodio di
Buona la prima!, la sit-com in presa diretta del duo
Ale & Franz. Gli anni si sentono, il
logoramento di un format prima fortissimo è quanto mai sotto gli occhi del pubblico, qualche scricchiolio nelle giunture lo si ascolta, con un po’ di tristezza.
Mago Forrest non è mai stato un granché, anzi: dopo un po’ scoccia di brutto e risulta
antipatico come pochi. Ma l’assenza reale di risate è provocata dalla contemporanea
assenza di quei nomi che avevano fatto la storia del
Mai dire…, adesso volati (o scappati) via. Ci si ripiega sulle
insopportabili imitazioni, che irritano quando superano il limite numerico – praticamente il programma regge quasi esclusivamente su queste ultime –, ci si affida, anche in questo caso, a qualche
bellona da spiattellare tra il pubblico, ma spiragli di sorrisi ci sono, in due differenti ed antitetici casi: con
Sensualità a corte e nello spazio dedito al
Grande Fratello. Il primo è uno spazio, ritagliato con fatica e con sudore, unico,
totalmente a sé stante. È surreale, è divertente, fa ridere.
Incredibilmente.
Jean Claude è un idolo, è oggetto delle disquisizioni del pubblico, è effettiva la sua riuscita. Il tormentone, sotto quest’ottica, non è invasivo, fa da contorno e non da contenuto, il che è
speranzoso. Il secondo invece apre un
varco di riflessione non indifferente sullo stadio retrogrado della comicità attuale. La
Gialappa’s pesca da un reality, un modo di fare televisione recentissimo, quindi dal mondo “reale”, ne rimodella le parti, ci aggiunge prima la voce che sovrasta i filmati e
accentua l’enfasi e poi i sottotitoli per evidenziarne l’ilarità. La comicità in presa diretta, attinta dalla realtà. Ed è forse il momento più riuscito ma
indigna per due motivazioni, reali e distinte: a volte si ride più in programmi che
non si propongono tale intento che in quelli puri sotto questo punto di vista; la
comicità studiata pare non funzionare più. Alla fine della fiera il programma
vivacchia, campa di stenti e gli ascolti non vanno mai oltre il
10% di share.
Cronologicamente parlando, però, la
Gialappa’s è stata anticipata, sempre sulla stessa rete, dal tentativo di dar vita ad un
similar-Zelig, ossia da
Colorado.
Colorado è la classica trasmissione che è in palinsesto e di cui, pur essendo a conoscenza del fatto che è lì, ti interroghi circa
l’utilità. L’evoluzione del suo scheletro è forte e il
risultato finale, come raramente accade, si discosta dall’idea primaria in maniera netta e precisa. Creato da
Diego Abatantuono come luogo per far emergere nuovi comici, una sorta di palestra, una specie di laboratorio, che fa eco volutamente al cabaret di matrice
americana, adesso è la
(brutta) copia del ben più famoso
Zelig. Alla conduzione un’eterna valletta, un’eterna ballerina alla ricerca di riscossa:
Rossella Brescia, affiancata dal tradizionale comico che non fa ridere ma che serve a non lasciare in balia dell’incapacità personale la donna,
Beppe Braida. In questo caso, ispezionando l’
ultima edizione andata in onda, l’impronta prevalente è
il ritmo. Il programma ha ritmo. È veloce, dinamico, nelle giuste corde dei telespettatori di Italia1. Non sempre però tutto ciò è paragonabile a beltà, a buon gusto, all’irresistibilità del programma, ma è
degno di nota. I numeri sono tantissimi, spesso qualche comico fa il
doppio turno calandosi nelle braghe di due distinti personaggi o situazioni. Questo tipo di comicità però è vuota, non fa riflettere come
Tintoria e non campa di nomea come
Mai dire….
Regge esclusivamente sul
tormentone brillante che fa la sua grande figura nello slang giovane. Certamente ha i suoi scheletri nell’armadio, come giusto e normale che sia: improponibili gli stantii ed obsoleti
Fichi d’India, i siparietti della televisione parallela di
Giovanni Cacioppo decelerano la spedita macchina. I numeri però riescono, tutto sommato. E ciò perché si crea una
ripetitività tale che alla sola apparizione del comico di turno ci si prepara psicologicamente al ridere: un
meccanismo perverso che agisce sui telespettatori che ne decretano un successo assurdo, con ascolti che vanno oltre il
14% di share.
L’uomo dei perché,
Baz 2.0,
Pino la lavatrice sono macchiette
mignon che emulano le gesta dei grandi comici di un altro colosso, nato anch’esso nel sottoscala di Italia1,
evolutosi freneticamente ed ora colonna portante di una programmazione televisiva.
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Si parla,
ovviamente, di
Zelig. Sembra ieri il giorno in cui andava in onda a notte inoltrata su Italia1 o quello in cui approdava su Canale5 sotto
un grande tendone. È oggi il giorno in cui Canale5
non può farne a meno, gli concede il Teatro degli Arcimboldi a Milano e lo schiera contro tutti e tutto. Questa stagione per il grande cabaret dell’ammiraglia Mediaset è stata
la più complessa, da un punto di vista strettamente televisivo. Ha subito i colpi di una crescente e sempre più gossippara
Isola dei Famosi, poi quelli delle inchieste del
Commissario Montalbano, e ha retto prima l’urto e nelle fasi finali si è espresso,
a livello d’ascolti, come nessuno mai nel corso di stagione. Si è piegato alle esigenze mediatiche, si è
furbescamente suddiviso in due per risultare vincente, ma la sua essenza non è stata intaccata. Non eccelsa, non sempre brillante, leggermente ammuffita e a volte poco incisiva,
la comicità di
Zelig, nella miglior tradizione di quanto già annunciato, è legata a doppio filo all'asfissiante
ricerca del tormentone, ma non che quest’anno ne sia stato sfornato un grande quantitativo, tutt’altro. L’unico realmente funzionante è stato quello dell’ “andiamo a ballare al Gilez”. I
brava, brava, brava di
Katia & Valeria, la canzone neomelodica di turno di
Checco Zalone e qualche momento disparato strappano qualche risata e fanno passare
piacevolmente una serata. Ma è da ammettere che il
Zelig di una volta
non esiste più, quasi come se la grandezza del palco su cui si esibiscono i comici e la gradevolezza, l’originalità e l’incisività di questi siano
inversamente proporzionali. Non è più il programma di rottura di una tempo: adesso è un normale varietà che poggia su elementi fissi, come la
buona interazione tra i conduttori, due eccellenti
Claudio Bisio e
Vanessa Incontrada, la ripetitività di uno schema arcinoto, il balletto, la risata.
La comicità, perciò, nel 2008
è implosa, ripiegata su sé stessa, incapace rispetto a ciò che dovrebbe essere il suo lavoro:
far ridere. Naturalmente
Tintoria,
Mai dire…,
Zelig,
Colorado non sono gli unici esperimenti e programmi di comicità della nostra televisione – si potrebbe parlare del
pessimo Saturday Night Live di Italia1, tanto per dire, o dell’
appendice di
Zelig denominata
Off (
sarebbe meglio appellarla Out), poi, o anche del
mefistofelico universo della satira – ma sono gli esempi rappresentativi di come questa sia vissuta in questi giorni. Nella speranza che, nel 2009, una
ventata di freschezza abbracci l’idea della comicità e allontani la difficoltà e la retrogradazione propria di questa...
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